Don't cry sister, everything will be just fine

29 Dicembre 2011

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    Emma
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    Dammy, porca troia.
    Il primo pensiero che mi veniva in mente, ogni fottuta volta, quando guardavo il mio stupiedo vecchio telefono, e appariva quel maledetto numero. L'ospedale.
    La tipica ansia che mi assaliva derivava principalmente dal fatto che poteva essergli successo DI TUTTO. Soprattutto quando era l'ospedale a chiamare, e non lui. Se stava bene abbastanza da non dover essere inchiodato al letto da qualche infermiera meticolosa e attenta era lui a chiamarmi, per dirmi che stava alla grande, e di tirarlo fuori di lì. Se mi chiamava l'ospedale significava un sacco di cose, poteva stare malissimo, poteva star morendo, poteva essere stato sedato mentre tentava di scappare, poteva essere morto. Morto. Ogni volta che questo pensiero passava per la mia mente il mio esile corpo veniva travolto da una scossa, che partiva dal basso della schiena, fino alla cima della nuca, tanto forte da dovermi mettere una felpa in più, o arrotolarmi in un giaccone, in una sciarpa, qualsiasi cosa, pur di non sentire sulla mia pelle il freddo che immaginavo sul suo volto.
    Respirai, pesanetemente, per riprendermi, e le nuvolette di vapore nell'aria fredda non fecero altro che ricordarmi la mia ansia. Mi accesi una sigaretta, e risposi.
    « Salve, il suo numero risulta come numero di emergenda di Damian Acker, è corretto? » disse una voce acida e acuta nel mio orecchio.
    « Sì, sono sua sorella... » il fiato sospeso, le mani che tremavano. Bastava una parola perchè la mia più grande paura svanisse dalla mente, lasciando posto solo a quella apprensione che mi spingeva, ogni volta, fino a quel dannato posto, per portarlo a casa.
    « Sorella? Scusi, ma i cognomi non coincidono.. ». Ancora più acida. Sbuffai. Certa gente non è in grado di farsi i fatti propri, no?
    « E allora? È mio fratello, il resto non credo la riguardi. » dissi, polemica. « Che è successo? » apprensiva, ora. Mi bastava un "sta bene" o "è sveglio".
    Irritata, dall'altra parte del telefono, cercò le parole per dirmi che era successo. Sembrava cercasse di sembrare delicata, ma non era molto brava. Per sua fortuna ero abituata a ricevere chiamate dall'ospedale.
    « Le... le sue condizioni sono stabili. » disse.
    « Sì, ma che è successo? »
    « È esploso un petardo sotto il suo skateboard, ed è caduto. Si rifiutava di farsi curare, ma un ragazzo ha chiamato l'ambulanza, e ora è qui. »
    Stava bene. Ferito, bruciacchiato, con qualche ossa rotta, forse, ma stava bene.
    « È sveglio? » chiesi, continuando a conversare con l'acida telefonista mentre spegnevo la sigaretta, e mi dirigevo verso la più vicina fermata di metropolitana.

    « Salve, sono qui per mio fratello, Damian Acker, ha avuto un incidente con dei fottuti petardi.. »
    « Il suo nome prego? »
    Altre lamentele per questa cosa del cognome, porca troia, possibile che nessuno ci creda? Siamo identici, porca troia!
    « Emma! Eccoti, finalmente.. Vieni, su! ». Finalmente, un volto noto. Nancy, infermiera, adorava Dammy, e ogni volta che finiva in ospedale si offriva per prendersi cura di lui. Inutile dire che dopo un po' aveva imparato a conoscermi, sapeva molte cose di me, soprattutto perchè mentre Dammy dormiva e lei gli puliva le ferite e il volto chiaccheravamo, giusto per ingannare il tempo. Era carina, ma decisamente non il mio tipo.
    « Nancy, grazie al cielo! La tizia che mi ha chiamata era una cretina patentata... Come sta? Che è successo? »
    « Ehi! Calma, calma Emma, Dam sta bene! Gli abbiamo dato qualcosa per dormire, perchè si agitava troppo, ma dovrebbe svegliarsi a momenti, vieni pure. » disse, guidandomi dietro una tendina, dove Dammy, con un braccio ingessato e la faccia piena di graffi dormiva beato, con quello stupido vestitino da ospedale che detestava, e una flebo al braccio sano.



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    Edited by arcobaleno sotto le scale - 9/10/2012, 16:45
     
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    damian jaden dorsey acker
    @ born: 14.05.1991, male, blue eyes, black hair ✩ code ©
    La percezione del tempo era qualcosa di decisamente relativo, e dopo anni passati a fare dentro e fuori dagli ospedali, la maggior parte delle volte passando almeno qualche ora imbottito di sedativi, Damian lo sapeva bene. Nonostante questo, però, ogni volta che l'effetto dei calmanti passava e la sua mente tornava a riacquistare lucidità, si ritrovava a chiedersi quanto tempo fosse passato da quando l'avevano messo K.O., e a volte anche dove si trovava. Era difficile rimettere assieme tutti i pezzi, come dopo una brutta sbornia - non che lui si fosse mai ubriacato, ma, be', più o meno gli sembrava potesse corrispondere a quel che raccontavano le altre persone parlando di ubriachezza e cose simili. Si sentiva intontito, incapace - o meglio privo di qualsiasi voglia di muoversi, il che per lui era qualcosa di semplicemente terrificante. Damian odiava stare fermo! Comunque, tutto attorno a lui c'erano voci, c'erano sempre state voci, di questo ne era sicuro, ma solo una sembrava essere stata in grado di farsi strada fino al suo cervello inebetito: la voce di Emma. Il che poteva significare solamente che qualche infermiera deficiente aveva ritenuto opportuno chiamarla al posto suo, probabilmente spaventandola a morte. Non potevano lasciargliela chiamare quando si fosse svegliato? O, ancora meglio, evitare di sedarlo? No? Troppo difficile? In qualche modo la sua mente gelatinosa riuscì ad articolare un pensiero sensato, spingendolo a parlare prima ancora di aprire gli occhi, altra cosa che il suo corpo sembrava non avere la benché minima voglia di fare.
    « Non preoccuparti, Ems » disse, la voce rallentata dagli effetti residui di qualsiasi cosa maledetta gli avessero dato. Possibile che non capissero che erano i farmaci a ridurlo ad un cadavere ambulante, e non le ferite? « Sto bene... » riprese. Il che, in fondo, non era una bugia. Mente annebbiata e riflessi da bradipo ubriaco a parte, non si sentiva diverso dal solito. Ma, d'altra parte, lui non si sentiva mai diverso dal solito, nemmeno quando aveva ossa che fuoriuscivano, tagli infetti o la febbre a quaranta. Be'... no, in quel caso generalmente se ne accorgeva perché tutto il mondo sembrava più luminoso e rumoroso, strano. Un po' la stessa sensazione che provò aprendo lentamente gli occhi: tanta, troppa luce, ma sapeva che non ci sarebbe voluto molto per riabituare la vista.

    do not give up, do not give in. just fight.
     
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    Emma
    Sophie Dorsey



    Dammy stava bene. Dammy stava bene, e il mio cuore aveva riiniziato a battere.
    Per quanto non fosse MAI stato davvero bene non riuscivo a immaginare la mia vita senza di lui. Non sarei riuscita a sopravvivere da sola, non avrei saputo cosa fare. Sarei probabilmente ancora a casa, ancora con Estelle, ancora con nostro padre. Sarei, forse, una persona felice, e non avrei mai saputo che tipo di uomo era mio padre. Metterei le gonne, forse, non studierei giurisprudenza, non avrei mai visto Parigi. Non avrei pianto, non avrei voluto strapparmi via la pelle, non avrei sentito sulla schiena le ferite che lui portava. Ma adesso, senza di lui, sarei impazzita. Da sola, a Parigi. In un futuro che, se non c'era lui, non aveva senso. Sapevo che la sua aspettativa di vita era drammaticamente più bassa della mia, ne ero consapevole, ma non riuscivo ad accettarlo. Nella mia testa la vita, senza Dammy, non esisteva. E non volevo affrontare il fatto che un giorno o l'altro la classica chiamata ospedaliera del pomeriggio si sarebbe rivelata l'ultima.
    Appena parlò, totalmente strafatto di farmaci, il mio cuore ripiombò alla vita, cominciando a battere all'impazzata per recuperare gli attimi persi nell'ansia. Mi lanciai a capofitto accanto al letto. Non importava quante volte avessimo ripetuto quella scena, non mi sarei mai abituata.
    « Dammy! Che hai combinato? » chiesi, incuriosita e interessata a quale altra attività pericolosa avrei dovuto imparare a monitorare. Avevano parlato di skateboard. Skateboard. Di pericolo ce n'era parecchio, ma non potevo certo negargli l'intera attività! Magari avremmo potuto stilare una lista di momenti idonei per smettere di andarci, o per andare di propria volontà all'ospedale. Tipo... vista di sangue, cadute brutali, scoppio di petardi (che ci facevano dei petardi, poi, che ancora non era arrivato capodanno).. Non avrebbe mai accettato, ma tanto valeva provare, no?
    « Mi han detto che non volevi venire qua... » gli dissi, guardandolo in modo torvo, con aria di rimprovero. Sapeva di non avere capacità di giudizio. Sapeva che se qualcuno consigliava l'ospedale era il caso di dargli retta. Lo sapeva. E sapeva che più si rifiutava più mi faceva preoccupare. Perchè cazzo si ostinava a fare così?
    Urgevano delle regole serie.
    Gli passai un braccio dietro le spalle, dandogli una piccola spinga per aiutarlo a sedersi. « Forza, intanto, comincia a tirarti su, che appena stai meglio andiamo a casa.. » Ovviamente intendevo cerebralmente. I sedativi lo rincoglionivano, com'è ovvio, e non avendo una macchina non avevo intenzione di trascinarlo sulle spalle in metropolitana. Era magro, certo, ma io lo ero più di lui, se possibile.



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  4. damælys
     
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    damian jaden dorsey acker
    ‹ born: 14.05.1991, male, student, 181cm, blue eyes, black hair ›
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    I suoi occhi impiegarono qualche istante a riabituarsi alla luce, e quando finalmente ci riuscirono incrociarono lo sguardo di Emma. Bravo Damian, bravo! L'hai fatta preoccupare di nuovo. Gli auto-rimproveri mentali non sortivano più effetto di quelli che continuava a ricevere da medici e parenti - Emma, quindi - ma semplicemente non poteva evitare di insultarsi da solo per come faceva sempre preoccupare sua sorella. Era inevitabile, così come era inevitabile per lui cacciarsi nei guai, farsi male o cedere all'istinto di scappare ogni volta che qualcuno proponeva di portarlo all'ospedale. Non aveva mai capito cosa lo spingesse a comportarsi così, forse un qualche inconscio istinto suicida... ma no. In ogni caso, non gli interessava più di tanto. Ogni volta si riprometteva di provare a pensare di più, a prestare più attenzione a quello che faceva e in generale alla sua salute, eppure ci ricascava sempre.
    Quando Emma gli mise un braccio dietro alle spalle per aiutarlo a mettersi seduto, istintivamente, colto alla sprovvista, si irrigidì, lanciando alla sorella un'occhiata omicida. Non voleva essere aiutato, non l'aveva mai voluto. Ma era Emma, e lei poteva fare tutto. Così, nell'istante stesso in cui il suo cervello registrò che era sua sorella quella che lo stava spingendo in posizione seduta, tornò a rilassarsi, facendo forza con il braccio sano - il destro, tanto per cambiare... - per non far fare tutto il lavoro a lei. Solo allora, solo quando fu finalmente con le gambe a penzoloni oltre il bordo del letto, si rese conto di avere addosso quel coso che si divertivano tanto a fargli indossare ad ogni ricovero. Poi notò anche il braccio sinistro ingessato da metà della mano fino a poco prima del gomito e l'ago della flebo infilato nell'altro. Il povero ago non durò a lungo: se lo strappò con un gesto deciso, ringraziando il cielo - o qualche misteriosa divinità nota solo alla sua mente - che per una volta l'articolazione del gomito fosse libera e le dita si muovessero senza troppe difficoltà. Ma perché si ostinavano a conciarlo a quel modo? Sollevò un lembo del camice con la mano sana, guardando quel vestitino orribile con una smorfia di puro disgusto.
    « Ems, dove sono i miei vestiti? » chiese, parlando in inglese. Con la sorella di solito tendeva a evitare il francese, per quanto possibile. Non gli piaceva, quella lingua, era troppo difficile per lui. Ora, poi, che era anche mezzo rintronato dai farmaci, la sola idea di mettersi a parlare una lingua piena di pronunce strane gli faceva passare la voglia di aprir bocca.
    ‹ role scheme realizzato da damælys - lo vuoi? chiedimelo! ›
    narrato - parlato (francese) - parlato (inglese) - pensato
     
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